venerdì 28 novembre 2014

L'amore bugiardo di Gillian Flynn



Probabilmente non conoscete “L’amore bugiardo”. E non lo conoscevo neanch’io finchè non ho visto il libro abbandonato sul divano da mia madre. Ed è stato uno dei libri che più mi hanno entusiasmato.
La storia può sembrare banale, il finale scontato, ma nessuno può immaginare la profonda e contorta psicologia che la Flynn attribuisce ai due personaggi principali, Nick e Amy, due scrittori di riviste, ormai senza lavoro, soppiantati dai computer, costretti a spostarsi dalla caotica New York in Missouri a causa dei problemi finanziari e della malattia della madre di lui. La vita aveva preso ormai una piega inaspettata e lontana da quella da loro sognata, il matrimonio aveva perso la scintilla che tempo prima li aveva uniti in una gelida notte a New York, finchè Nick, tornato dal bar in cui lavorava insieme alla sorella Go, non scopre la porta spalancata di casa sua e il salotto devastato, senza più alcuna traccia della moglie, sparita. Iniziano subito indagini e veglie, telefonate e apparizioni in programmi tv, mentre Nick versa in una situazione sempre più pericolosa e complicata, soprattutto dopo che vengono trovate tracce di una pozza di sangue in cucina, accuratamente pulita.
La vicenda è raccontata attraverso due diversi punti di vista, il diario di Amy, che dipinge i contrasti più feroci con Nick e le sue mancanze, i difetti che le aveva nascosto, la sua indifferenza verso di lei, e Nick stesso, che descrive i passaggi e gli sforzi compiuti per la ricerca di Amy.
Passo dopo passo, dubbio dopo dubbio, i sospetti ricadono sempre più su Nick, ma egli riesce improvvisamente a comprendere e a ritrovare, grazie ad una caccia al tesoro che Amy aveva preparato (e che da sempre preparava) per il loro anniversario, il vero carattere della moglie e il suo complesso e determinato ingegno.
E tutto gli fa pensare che Amy non sia morta né scomparsa. E tutto gli fa pensare che voglia vendicarsi su di lui, nel peggior modo possibile.

Bianca Maria Lapi    

Una questione privata di Beppe Fenoglio



Il romanzo si incentra sulla vicenda del partigiano Milton e della sua ricerca di Giorgio, suo commilitone e amico, nella zona di Alba (nelle Langhe), raccontata in prima persona con frequenti digressioni riguardanti i suoi ricordi o le sue impressioni.
Dopo aver scoperto una relazione tra Fulvia, una ragazza facoltosa di cui il protagonista si era innamorato, e Giorgio, Milton decide di partire alla ricerca di quest’ultimo al fine di chiedere chiarimenti sul fatto. I suoi spostamenti sono un pretesto per l’autore per descrivere varie situazioni legate al momento storico.
Nonostante l’importanza di quest’opera in quanto fra quelle fondatrici della letteratura della Resistenza, il suo valore effettivo è giudicabile decisamente inferiore, specialmente se messa a confronto con altri testi, meglio realizzati, sullo stesso argomento.
L’intero racconto tende a focalizzarsi eccessivamente su dettagli tendenzialmente insignificanti per la trama, caratteristica che penalizza le parti narrative facendo diminuire l’interesse e l’attenzione del lettore, il quale vede trasformate in delusione tutte le sue aspettative circa il finale, finale che è impropriamente chiamato così dal momento che è ambiguo e difficile da interpretarsi.

Marta Lo Faso e Edoardo Cipriani 


lunedì 24 novembre 2014

Ricordo di Romano Bilenchi

Romano Bilenchi moriva a Firenze il 18 novembre 1989, 25 anni fa appunto.
Da tempo ormai – non saprei dire da quanto – non tornava a Colle Val d'Elsa nè usciva, per la malattia, dalla sua casa, in via Brunetto Latini. Gli amici che lo andavano a trovare, per un saluto, una discussione o il piacere di stargli accanto, lo trovavano immancabilmente seduto in salotto, su un divano verde, circondato quasi con amore dai libri e dalle opere dei suoi amici pittori.
Il salotto era il suo microuniverso, riproduceva i segni di amicizie, affetti, relazioni forti e autentiche. Riproduceva materialmente un mondo lontano, capace di perdurare solo nella memoria.
Sul tavolino davanti a lui, altri libri, ma immancabilmente un portacenere stracolmo di mozziconi, e scatole di medicinali e le sigarette, che accendeva di continuo, con le dita ormai macchiate dal giallo della nicotina.
Bilenchi accoglieva nella sua casa amici, conoscenti, giovani, letterati e intellettuali, mostrando a tutti, senza distinzioni di sorta, senza spocchia o presunzione, la sua inesauribile disponibilità al dialogo. La sua gentilezza aveva il sapore semplice e antico di altri tempi.
Tra una sigaretta e l'altra, accendeva il televisore, azionava il telecomando spostandosi incessantemente da un canale all'altro, con un fare in apparenza distratto e svagato, che poteva anche mettere in imbarazzo; eppure, malgrado questo, sapeva  seguire con vivacità le pieghe della conversazione, anzi la orientava senza parere con osservazioni schiette e fulminee, con il racconto di episodi della sua vita, con un gusto sapiente nel tratteggiare e colorire personaggi e situazioni. E così lasciava senza parole chi gli stava accanto.
Bilenchi appariva, ma meglio dire era, un uomo profondamente buono e generoso con tutti, che non negava la sua disponibilità o la sua attenzione. Era anzi un uomo che regalava, quasi con noncuranza, testimonianze, uno spaccato sulla vita e le relazioni, insomma su un mondo, la Firenze degli anni '30 e oltre, lontano, che non esisteva più, nè nei suoi protagonisti, nè nello spirito, se non nella sua memoria.
Parlando e raccontando, tra una sigaretta e l'altra, Bilenchi ritornava sul passato, sul suo passato, con le luci e le ombre; con le parole non faceva che 'riscriverlo' e 'scavarlo', portando in superficie trame, sfumature, tracce sempre nuove e diverse.
Le sue sono parole – si è detto – che risuonano ossessivamente ripetitive, come in un bolero, ma, si sa, “le parole sono come pietre da tirare in uno specchio d'acqua per provocare cerchi concentrici sempre più ampi”: così diceva Bilenchi in una intervista del 1983.
Il gioco umile dei bambini di un tempo diventa così l'immagine viva e gioiosa per descrivere, per rappresentare quello, ben più complesso, intricato e difficile, da grandi, della scrittura.
Sarà banale, ma Bilenchi non poteva con altre parole descrivere meglio il lavorio di una vita, il fuoco che animava da sempre la sua scrittura e che ce la rende così particolare, così unica, ma anche così vicina.      
La scrittura di Romano Bilenchi torna ossessivamente ad esplorare il mondo lontano dell'infanzia, quella zona d'ombra che tutti attraversiamo, in cui l'essere è indefinito o in cerca di una sua identità; una zona dove le ferite, anche quelle occasionali, si incistano e rimangono indelebili, quasi marchi a fuoco nella carne. Ma anche dove le speranze e i sogni hanno la forza e la fissità luminosa  dell'indicibile.
Restiamo 'intrappolati', ma anche sedotti e affascinati, come gli innumerevoli personaggi, in un tempo che si ripete, che non porta mai a passare la soglia, visto che Bilenchi non fa che dilatare e sviluppare, con le sue parole, pulsioni, desideri, paure e dolori restando sempre al di qua. Noi come loro, in fondo.

Rileggere Bilenchi significa sempre compiere un esercizio di scavo nelle ferite e nell'ombra che stanno anche dentro di noi, senza la prospettiva di trovare facili consolazioni o soluzioni di comodo; anzi proprio quel leggero, inquietante, urticante disagio che proviamo e che ci rimane addosso è il segno della grandezza, è la forza autentica dell'opera letteraria. Quella che ce la fa amare incondizionatamente. 

Claudia Corti 

venerdì 21 novembre 2014

Dürrenmatt, il delitto e non solo

Mercoledì 19 novembre il gruppo di lettura si è riunito per parlare un po' dell'ultimo libro scelto, "Il giudice e il suo boia" di Friedrich Dürrenmatt. Un giallo breve, ma di sicuro impatto. Proprio su questo aspetto si sono soffermati alcuni lettori, e ne sono rimasti piacevolmente affascinati. Solitamente ci si aspetta un approccio diretto, se di giallo si tratta, mentre  in questo caso c'è la costruzione perfetta di una rete in cui l'assassino cadrà, ma solo alla fine, senza che si sveli mai, neanche in modo accennato, alla sua figura come tale.
Si viene accompagnati nella narrazione, mentre seguiamo l'indagine del vecchio e malato ispettore Bärlach e dell'agente Tschanz. La scrittura è misurata e rigorosa, e infatti qualche nostro lettore faceva  notare l'eleganza del tono, che ci fa comunque rimanere incollati al libro in attesa del finale a sorpresa. La conversazione sul libro di Dürrenmatt ci ha fatto riflettere su quanto oggi siamo pronti ad aspettarci un giallo dalla scrittura più forte e aggressiva, arricchito dai metodi di indagine propri dei nostri tempi. L'originalità de "Il giudice e il suo boia" è proprio questa: portarci  a scoprire il colpevole  con i metodi investigativi del 1948, e condurci con l'autore a delle riflessioni sul caso e sulla giustizia. Il primo governa  i destini di tutti noi, malgrado cerchiamo di mettere ordine nel caos  come fa l'ispettore Bärlach. Sulla seconda è sempre il protagonista che  ci fa  riflettere, chiedendosi se sia giusto incolpare qualcuno innocente oggi, per un delitto commesso molti ani prima. Così deciderà di essere giudice, ma soltanto per raggiungere uno scopo che si annida nel passato di lui e del suo nemico.