lunedì 24 novembre 2014

Ricordo di Romano Bilenchi

Romano Bilenchi moriva a Firenze il 18 novembre 1989, 25 anni fa appunto.
Da tempo ormai – non saprei dire da quanto – non tornava a Colle Val d'Elsa nè usciva, per la malattia, dalla sua casa, in via Brunetto Latini. Gli amici che lo andavano a trovare, per un saluto, una discussione o il piacere di stargli accanto, lo trovavano immancabilmente seduto in salotto, su un divano verde, circondato quasi con amore dai libri e dalle opere dei suoi amici pittori.
Il salotto era il suo microuniverso, riproduceva i segni di amicizie, affetti, relazioni forti e autentiche. Riproduceva materialmente un mondo lontano, capace di perdurare solo nella memoria.
Sul tavolino davanti a lui, altri libri, ma immancabilmente un portacenere stracolmo di mozziconi, e scatole di medicinali e le sigarette, che accendeva di continuo, con le dita ormai macchiate dal giallo della nicotina.
Bilenchi accoglieva nella sua casa amici, conoscenti, giovani, letterati e intellettuali, mostrando a tutti, senza distinzioni di sorta, senza spocchia o presunzione, la sua inesauribile disponibilità al dialogo. La sua gentilezza aveva il sapore semplice e antico di altri tempi.
Tra una sigaretta e l'altra, accendeva il televisore, azionava il telecomando spostandosi incessantemente da un canale all'altro, con un fare in apparenza distratto e svagato, che poteva anche mettere in imbarazzo; eppure, malgrado questo, sapeva  seguire con vivacità le pieghe della conversazione, anzi la orientava senza parere con osservazioni schiette e fulminee, con il racconto di episodi della sua vita, con un gusto sapiente nel tratteggiare e colorire personaggi e situazioni. E così lasciava senza parole chi gli stava accanto.
Bilenchi appariva, ma meglio dire era, un uomo profondamente buono e generoso con tutti, che non negava la sua disponibilità o la sua attenzione. Era anzi un uomo che regalava, quasi con noncuranza, testimonianze, uno spaccato sulla vita e le relazioni, insomma su un mondo, la Firenze degli anni '30 e oltre, lontano, che non esisteva più, nè nei suoi protagonisti, nè nello spirito, se non nella sua memoria.
Parlando e raccontando, tra una sigaretta e l'altra, Bilenchi ritornava sul passato, sul suo passato, con le luci e le ombre; con le parole non faceva che 'riscriverlo' e 'scavarlo', portando in superficie trame, sfumature, tracce sempre nuove e diverse.
Le sue sono parole – si è detto – che risuonano ossessivamente ripetitive, come in un bolero, ma, si sa, “le parole sono come pietre da tirare in uno specchio d'acqua per provocare cerchi concentrici sempre più ampi”: così diceva Bilenchi in una intervista del 1983.
Il gioco umile dei bambini di un tempo diventa così l'immagine viva e gioiosa per descrivere, per rappresentare quello, ben più complesso, intricato e difficile, da grandi, della scrittura.
Sarà banale, ma Bilenchi non poteva con altre parole descrivere meglio il lavorio di una vita, il fuoco che animava da sempre la sua scrittura e che ce la rende così particolare, così unica, ma anche così vicina.      
La scrittura di Romano Bilenchi torna ossessivamente ad esplorare il mondo lontano dell'infanzia, quella zona d'ombra che tutti attraversiamo, in cui l'essere è indefinito o in cerca di una sua identità; una zona dove le ferite, anche quelle occasionali, si incistano e rimangono indelebili, quasi marchi a fuoco nella carne. Ma anche dove le speranze e i sogni hanno la forza e la fissità luminosa  dell'indicibile.
Restiamo 'intrappolati', ma anche sedotti e affascinati, come gli innumerevoli personaggi, in un tempo che si ripete, che non porta mai a passare la soglia, visto che Bilenchi non fa che dilatare e sviluppare, con le sue parole, pulsioni, desideri, paure e dolori restando sempre al di qua. Noi come loro, in fondo.

Rileggere Bilenchi significa sempre compiere un esercizio di scavo nelle ferite e nell'ombra che stanno anche dentro di noi, senza la prospettiva di trovare facili consolazioni o soluzioni di comodo; anzi proprio quel leggero, inquietante, urticante disagio che proviamo e che ci rimane addosso è il segno della grandezza, è la forza autentica dell'opera letteraria. Quella che ce la fa amare incondizionatamente. 

Claudia Corti 

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