Romano
Bilenchi moriva a Firenze il 18 novembre 1989, 25 anni fa appunto.
Da
tempo ormai – non saprei dire da quanto – non tornava a Colle Val d'Elsa nè
usciva, per la malattia, dalla sua casa, in via Brunetto Latini. Gli amici che
lo andavano a trovare, per un saluto, una discussione o il piacere di stargli
accanto, lo trovavano immancabilmente seduto in salotto, su un divano verde,
circondato quasi con amore dai libri e dalle opere dei suoi amici pittori.
Il
salotto era il suo microuniverso, riproduceva i segni di amicizie, affetti,
relazioni forti e autentiche. Riproduceva materialmente un mondo lontano,
capace di perdurare solo nella memoria.
Sul
tavolino davanti a lui, altri libri, ma immancabilmente un portacenere stracolmo
di mozziconi, e scatole di medicinali e le sigarette, che accendeva di
continuo, con le dita ormai macchiate dal giallo della nicotina.
Bilenchi
accoglieva nella sua casa amici, conoscenti, giovani, letterati e
intellettuali, mostrando a tutti, senza distinzioni di sorta, senza spocchia o
presunzione, la sua inesauribile disponibilità al dialogo. La sua gentilezza
aveva il sapore semplice e antico di altri tempi.
Tra
una sigaretta e l'altra, accendeva il televisore, azionava il telecomando
spostandosi incessantemente da un canale all'altro, con un fare in apparenza
distratto e svagato, che poteva anche mettere in imbarazzo; eppure, malgrado
questo, sapeva seguire con vivacità le
pieghe della conversazione, anzi la orientava senza parere con osservazioni schiette
e fulminee, con il racconto di episodi della sua vita, con un gusto sapiente
nel tratteggiare e colorire personaggi e situazioni. E così lasciava senza
parole chi gli stava accanto.
Bilenchi
appariva, ma meglio dire era, un uomo profondamente buono e generoso con tutti,
che non negava la sua disponibilità o la sua attenzione. Era anzi un uomo che
regalava, quasi con noncuranza, testimonianze, uno spaccato sulla vita e le
relazioni, insomma su un mondo, la Firenze degli anni '30 e oltre, lontano, che
non esisteva più, nè nei suoi protagonisti, nè nello spirito, se non nella sua
memoria.
Parlando
e raccontando, tra una sigaretta e l'altra, Bilenchi ritornava sul passato, sul
suo passato, con le luci e le ombre; con le parole non faceva che 'riscriverlo'
e 'scavarlo', portando in superficie trame, sfumature, tracce sempre nuove e
diverse.
Le
sue sono parole – si è detto – che risuonano ossessivamente ripetitive, come in
un bolero, ma, si sa, “le parole sono come pietre da tirare in uno specchio
d'acqua per provocare cerchi concentrici sempre più ampi”: così diceva Bilenchi
in una intervista del 1983.
Il
gioco umile dei bambini di un tempo diventa così l'immagine viva e gioiosa per
descrivere, per rappresentare quello, ben più complesso, intricato e difficile,
da grandi, della scrittura.
Sarà
banale, ma Bilenchi non poteva con altre parole descrivere meglio il lavorio di
una vita, il fuoco che animava da sempre la sua scrittura e che ce la rende
così particolare, così unica, ma anche così vicina.
La
scrittura di Romano Bilenchi torna ossessivamente ad esplorare il mondo lontano
dell'infanzia, quella zona d'ombra che tutti attraversiamo, in cui l'essere è
indefinito o in cerca di una sua identità; una zona dove le ferite, anche
quelle occasionali, si incistano e rimangono indelebili, quasi marchi a fuoco
nella carne. Ma anche dove le speranze e i sogni hanno la forza e la fissità
luminosa dell'indicibile.
Restiamo
'intrappolati', ma anche sedotti e affascinati, come gli innumerevoli
personaggi, in un tempo che si ripete, che non porta mai a passare la soglia,
visto che Bilenchi non fa che dilatare e sviluppare, con le sue parole,
pulsioni, desideri, paure e dolori restando sempre al di qua. Noi come loro, in
fondo.
Rileggere
Bilenchi significa sempre compiere un esercizio di scavo nelle ferite e
nell'ombra che stanno anche dentro di noi, senza la prospettiva di trovare
facili consolazioni o soluzioni di comodo; anzi proprio quel leggero,
inquietante, urticante disagio che proviamo e che ci rimane addosso è il segno
della grandezza, è la forza autentica dell'opera letteraria. Quella che ce la
fa amare incondizionatamente.
Claudia Corti
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